Entrevistas en italiano
Cultura a ilroma@net, Roma, 22 de mayo de 2013. Emanuela Guarnieri
IRONIA E SOGNO NEI RACCONTI DI ROMERO
La casa editrice Arcoiris ha tradotto una sua raccolta di racconti intitolandola Istantanee di inquietudine. Crede che il racconto sia più idoneo del romanzo ad esprimere sensazioni come l’angoscia, il terrore e l’ansia?
Sono entrambi efficaci, se si sa come usarli. Anche se il racconto è una forma breve, pertanto è più facile mantenere la tensione.
In alcuni racconti, come Epifite, appare evidente l’omaggio a Julio Cortázar. Quali altri autori considera come suoi maestri?
Nei miei testi è possibile trovare tracce di autori che ammiro molto: Daniel Moyano, Cortázar, Borges, García Márquez, molti narratori anglossassoni. Con il passare del tempo e con il lavoro costante, lo scrittore va acquisendo una voce propria nella quale si diluiscono quelle degli autori che lo hanno nutrito. Allora è possibile rendere omaggio ai propri maestri.
Che peso ha la componente onirica nei suoi racconti?
Nei miei racconti e romanzi l’elemento onirico è fondamentale per la costruzione di mondi distopici nei quali mi muovo con disinvoltura e dove incorporo le mie alternative al mondo reale, così complicato, incomprensibile, crudele, ingiusto e noioso. Il mondo dei sogni non sfugge al mio controllo, in esso mi sento padrone, faccio e disfaccio a mio piacimento, mi rende libero e mi trasforma quasi in un Dio. La realtà, invece, mi sfugge dalle mani e mi rende schiavo.
Nel racconto dedicato alla piangitrice, viene utilizzata a tratti un tipo di scrittura ironica. Può il riso rendere dicibile ciò che è scabroso e/o inaccettabile?
Sí, lo humor, l’ironia e il sarcasmo sono tra le mie armi preferite, sia nella letteratura che nella vita. Con l’ironia si può affrontare in modo trasversale qualsiasi aspetto della realtà, dei sentimenti o delle sensazioni. L’uso dello humor ci libera dal dolore e, a volte, dalla coscienza mentre il sarcasmo ci permette di esercitare la crudeltà in maniera elegante e ingegnosa.
Dai racconti emergono personaggi insoliti, a volte grotteschi. Nonostante la brevità imposta da questo genere letterario, però, il lettore riesce a immaginarli nel dettaglio. Qual è il trucco?
Non saprei dire se utilizzo un trucco per la costruzione di un personaggio. A volte bastano un paio di pennellate precise. A volte basta una frase che esce dalla bocca di un personaggio per immaginarselo, ad esempio, se qualcuno dice ad un altro “la prima cosa che fece fu mettere l’occhio di cristallo” non ci sarà bisogno di introdurre la parola orbo.
Edizzioni Arcoiris, Barbara Stizzoli, dicIembre, 2012
LE INQUIETUDINI DELL’ ANIMA
«Dieci racconti, poco più di cento pagine: una lettura, un sentiero che porta alla scoperta di Norberto Luis Romero e della sua scrittura. Dieci storie che narrano con pennellate veloci l’inquietudine».
E’ così che Dajana Morelli, traduttrice e curatrice di «Istantanee d’inquietudine» ci presenta l’essenza ed il filo conduttore degli spiazzanti racconti che compongono questa raccolta e che scavano in profondità, indagano gli uomini e i loro comportamenti, senza giudicare, lasciando il lettore smarrito, senza via d’uscita.
A Norberto va il mio grazie non solo per essere entrato nel gruppo Arcoiris con la sua bontà ed umiltà nonchè con le sue eccellenti qualità letterarie, ma anche e soprattutto per essersi messo a nudo in questa intervista che mi ha rilasciato e grazie alla quale possiamo comprendere meglio quali meccanismi umani rendono la sua anima così inquieta.
In quale momento della tua vita hai iniziato a dedicarti alla scrittura e quando hai capito che scrivere sarebbe diventata la tua professione?
Ho iniziato a scrivere molto presto, per dare voce ad una necessità imperante di dar sfogo ad alcune inquietudini interiori, alcune fantasie in gran parte generate, o meglio stimolate, dalla lettura di alcuni libri di genere fantastico, tutti di autori classici anglosassoni, presenti nella biblioteca dei miei genitori. Avevo circa quattordici anni quando iniziai a scrivere un racconto di tipo folklorico e fantastico, che poi non ho mai finito. E fu a partire da questo primo impulso frustrato che iniziai a scrivere una serie di racconti, in quell’epoca in cui ero influenzato fortemente da Ray Bradbury ed anche da “Le cosmicosmiche” di Calvino. In seguito ci furono Borges, Cortázar, Buzzati ecc., e molti altri, ed ognuno di questi meravigliosi autori aggiungeva nuovi ingredienti ai miei racconti, e nel frattempo si delineava la mia voce. Una volta terminata l’università e a causa del mio lavoro, misi da parte la scrittura, che ripresi quando arrivai in Spagna, ad intermittenza e considerandomi sempre come “uno in più che scrive”, ma non uno scrittore. Fu il mio amico, il grande scrittore riojano-cordobese Daniel Moyano, che conobbi a Madrid, colui che mi fece prendere coscienza della mia condizione di scrittore. Successivamente H. E. Francis, scrittore nordamericano, amico e traduttore di Moyano ad anche mio, confermò il mio essere uno scrittore. A loro due devo tanto, tantissimo.
Dopo tanti anni in Spagna, in cosa ti senti argentino e in cosa ti senti spagnolo?
Innanzitutto devo dire che in realtà non sono in grado di rispondere. A noi argentini viene attribuito, proprio – e sembra essere un luogo comune – una sorta di mancanza d’identità. Io credo che questa specie di mancanza d’identità sia proprio l’identità degli argentini e che in realtà non sia altro che una capacità di adattarsi a qualunque nuova identità senza però abbandonare quella precedente, ed al tempo stesso avere tante identità. Per confondere meglio: diciamo che la pluri-identità è una delle caratteristiche di un argentino, cosa che non dobbiamo confondere con il concetto di personalità multipla tanto di moda. Un argentino si sentirà argentino in Polonia e al Polo Nord, ma questo non gli impedirà di parlar male o rinnegare il suo paese ed inoltre di sentirsi straniero quando si trova lì. Anche il rapporto odio amore è un segno dell’identità in questo caso. Personalmente, con il passare degli anni, mi sento sempre più vicino all’Argentina che alla Spagna, un paese che da alcuni anni a questa parte è diventato indescrivibile, è per disgrazia, non diventa fantastico, anche se si trova ad un passo dal diventare irreale.
L’appartenenza a due mondi contemporaneamente (Argentina e Spagna) in che modo ha influenzato la tua visione della vita e della letteratura?
La dualità di sentimenti, in questo caso, si riversa fortemente nella sfera del linguaggio e della creazione, più che nella vita quotidiana. La mia vita sarebbe più o meno la stessa se vivessi in qualunque altro paese in cui si parla il castigliano, i conflitti con il linguaggio sarebbero gli stessi. Fra il castigliano di Spagna e quello d’Argentina esistono varie differenze lessicali e grammaticali, così come di significato. Il linguaggio che ho imparato fino ai miei 25 anni, nella mia patria, anche se alcuni anni fa, forse quando la Spagna mi abbagliava, avevo la convinzione e commisi l’errore di considerare che il castigliano di Spagna fosse quello corretto, e mi allontanai dalle mie fonti, alle quali oggi faccio ritorno. Nel mio ultimo romanzo “Terra di barbari”, recupero la mia lingua materna, è stata una necessità, e confesso di aver avuto molte difficoltà pratiche poiché vivo fuori dal paese.
Al di là del linguaggio, la mia esperienza di vita profonda appartiene all’Argentina, dove mi sono formato e sono cresciuto, dove ci sono i miei ricordi felici e quelli infelici, pertanto mi risulta impossibile rinunciare al mio passato, alla gente della mia terra e alla mia geografia.
Quanto c’è di Norberto Luis Romero nel personaggio principale di “El lado oculto de la noche” quando – spesso – ripete “sono differente”?
Tutto, il protagonista sono io, non c’è dubbio. Un bambino e adolescente che ha coscienza della realtà che lo circonda e che risulta essere ostile, che invece di giocare, andare a ballare, uccidere le rane o andare in campeggio, preferisce ascoltare musica classica, leggere, dipingere e che inoltre ha una madre che agonizza per molti anni, è fuori dalle orbite ed è solo, nessuno può comprendere il suo mondo e condividerlo, pertanto è unico. Genet diceva qualcosa del genere: “La solitudine morale dell’assassino si unisce alla solitudine dell’artista che non concepisce altra autorità al di fuori di quella di un altro artista”. Sono stato solo per tanti anni ed è stato molto duro. Il personaggio osserva con freddezza quello che accade attorno a lui attraverso queste sfere di vetro con cui vede la verità, una verità che non gli piace ed è solo perché non riesce ad inserirsi in essa, non vuole appartenere alla tribù, una tribù assurda, fatta di riti vuoti, bugie, violenza… e il personaggio apparentemente accetta la realtà con rassegnazione, senza denunciarla, e ciò che fa è trasgredire costantemente, perché è conscio della sua falsità ed ha capacità critica. Il mio primo libro di racconti si chiama “Trasgressioni”, non è un caso.
Qual è il lato oscuro dell’anima umana che più ti affascina e quello che più ti spaventa?
Quello che più mi affascina è la capacità di fare del male, l’egoismo ad oltranza, l’ignoranza e il disprezzo del prossimo perché ci si ritiene superiori. Mi affascina la cattiveria insita nell’uomo, la sua intrinseca natura distruttiva, la sua capacità di produrre dolore, e mi da fastidio che non si voglia accettare e riconoscere l’esistenza di questo lato oscuro, delle passioni umane che possono arrivare ad estremi di violenza e distruzione, e mi dispiace che si nascondano dietro una maschera o neghino con la cultura del politically correct istituzionalizzata.
Ciò che temo di più è il totalitarismo verso il quale ci dirigono molti governi, questo costante addottrinamento ideologico in cui solo i potenti possono permettersi il lusso di godere delle proprie passioni e portarle all’estremo della perversione, il lato oscuro dell’anima, e abbandonarsi a lei fino a raggiungere eventi estremi come l’Olocausto. La doppia moralità mi atterrisce, e purtroppo vedo in che modo guadagna terreno giorno dopo giorno.
In molti dei tuoi racconti vengono narrate storie difficili e dolorose (violenza sessuale in “Il fiore azteco”, un uomo vittima di sua moglie in “Mentre lei dorme”, mostruosi mendicanti di strada in “Diario del Tassidermista”) che possono avvenire nella realtà, ma in essi c’è sempre una componente irreale. Questa è una forma di autoprotezione da ciò che è angusto e doloroso (ciò che è negativo viene messo sullo stesso piano di ciò che è ironico per togliere valore ed importanza al dolore stesso) o è semplicemente un desiderio di affrontare la vita con un sorriso sul volto nonostante tutto?
Credo che la prima opzione sia quella giusta, non sono d’accordo con l’idea di affrontare le avversità della vita, il lato oscuro dei rapporti umani, il dolore, la malattia e la morte, con un sorriso, mi sembra una cosa troppo vicina al concetto cristiano di rassegnazione, al porre l’altra guancia davanti alle disgrazie. Si, credo nell’umorismo e nell’ironia, compresa quella più crudele, come alternativa quando non si può ricorrere alla ribellione o alla violenza per modificare la realtà, o per affrontare l’insalvabile “moira” o la fatalità. E’ la trasgressione, in questo caso attraverso l’ironia, un elemento estraneo alla realtà che penetra in lei come un parassita e ne distorce l’essenza, la rende contraria e la eleva al piano dell’immaginazione, con la quale la rende sopportabile oppure la distrugge.
Il blog del Parra
INTERVISTA LO SCRITTORE ARGENTINO NORBERTO LUIS ROMERO
Ti ho conosciuto grazie al tuo racconto “Telecita” che hai definito un racconto d’immagini. Vorrei sapere come riesci a gestire l’interazione tra le parole e le immagini.
Quando definisco “Telecita” come un racconto di immagini mi riferisco al fatto che è un racconto molto visuale, come quasi tutti i miei racconti, che potrebbero addirittura essere filmati. Tutto questo forse si deve al fatto che la mia prima percezione di un’idea è una sorta di scintilla che di solito arriva come un’immagine per via della mia formazione da regista di cinema. A partire da un dato momento elaboro il fatto, o le azioni, a volte la trama, o piuttosto i personaggi, attraverso la creazione di un’atmosfera in cui primeggiano le immagini, che spesso non sono soltanto visuali ma anche olfattive, oniriche in molti casi, tattili, sensuali. Con parole esprimo quella atmosfera che provo, ma non solo con gli aggettivi, che sono quelli che di solito creano un’atmosfera, anche con l’azione e la reazioni dei personaggi, e soprattutto con i silenzi, così importanti nel momento di narrare.
Ho letto che tutte le mattine scrivi in un bar. E’ forse questo il luogo ideale per catturare le immagini che poi utilizzi nei tuoi racconti?
No, di solito queste immagini mi arrivano in qualsiasi forma e in qualsiasi momento, soprattutto di notte quando sono a letto. Quando sto scrivendo mi isolo in maniera quasi assoluta, in modo che potrei scrivere sia in un bar sia in una balera: la realtà circondante di solito scompare quando sono nel pieno del processo creativo, questo mi consente di elaborare un mondo proprio che non mi è ostile e la cui volontà è nelle mie mani. In questo mondo fantastico, nell’altro mondo, che definisco come la “veglia”, svanisce. E’ il mio modo di sfuggire a quello che non mi piace e avvicinarmi al calore della felicità.
Tutti ricordiamo il passato dell’Argentina, la dittatura dei generali. A quanto di tutto questo s’ispirano le tue storie?
La verità è che poco di questo passato mi arriva come ispirazione, soprattutto quando la mia letteratura è praticamente nella sua totalità di genere fantastico, ma in ogni argentino ( e anche in ogni sudamericano che, in un modo o in un altro, abbia subito dittature), persiste un fondo amaro, e questo si rispecchia direttamente o indirettamente in ciò che scriviamo, soprattutto, quando ci è toccato vivere quella storia in tappe della vita così vulnerabili come lo sono l’infanzia e l’adolescenza, quindi nel pieno della formazione della personalità, dell’identità. Così, spesso, quasi involontariamente, come “heraldos intrusos”, s’intromettono in qualche storia, vengono fuori in un modo o in un altro, perché sono lì, nel pozzo di amarezza dove si allagano le brutte esperienze ed il dolore. Io non scrivo precisamente dal lato della felicità, nemmeno dal lato amabile della vita, ma tutto il contrario: dal lato scuro.
Una domanda personale: Quando hai deciso di iniziare a scrivere? E’ stato un’esigenza personale o un’ambizione?
Che io ricordi, scrivo da quando avevo dodici o tredici anni, ma ho avuto la consapevolezza di essere uno scrittore quasi a 30 anni, quando conobbi uno dei miei maestri, Daniel Moyano, e lui mi fece capire che ero uno scrittore, non soltanto uno che scriveva nel tempo libero. Evidentemente, scrivere è stata da sempre un’esigenza, perché le mie ambizioni letterarie sempre furono, semplicemente, quelle di essere un bravo narratore, indipendentemente dal fatto che il successo arrivi o meno. Non so se ci sono riuscito appieno, ma spero di farcela in futuro non molto lontano.
Ti posso chiedere a cosa stai lavorando attualmente? E per chiudere, una curiosità. Che libri hai sul tuo comodino?
Poco fa ho finito un romanzo che sono stato costretto a scrivere tra traslochi e viaggi, ci ho messo circa due anni di lavoro a scrivere questo romanzo, come quasi tutti, e una volta finito (sempre mi accade) rimango vuoto e non sono in grado di scrivere quasi nulla. Finché non cominciano ad accumularsi delle strane sensazioni che sembra che spingano il mio cervello perché vogliono uscire, così si affacciano personaggi, mi assalgono le immagini… ecco, quello è il momento di iniziare un altro romanzo. Non mi succede la stessa cosa con i racconti, che una volta finiti, non sono estenuato, sono passati da me come una brezza. Ciò nonostante, ho già iniziato un romanzo: “Estado Lavario”, dalla quale ho bisogno di prendere le distanze un po’ di tempo prima di continuare, perché i fatti che narro in lui sono molto recenti ed una delle condizioni per scrivere è quella di essere abbastanza obiettivo come per dominare l’azione, perché non deve essere lei a domina lo scrittore. E’ chiaro che potrebbe capitare che se prendo troppo le distanze dal romanzo, questo mi sia straneo, con il rischio concreto di doverlo abbandonare. Vedremo.
In questo preciso momento sul mio comodino ho Juan Carlos Onetti, che non delude mai.